Riforme e democrazia rappresentativa

di Umberto Cogliati
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Stiamo attraversando un momento politico denso di riforme come mai prima d’ora. Il governo in carica ha impresso una accelerazione sull’ammodernamento degli assetti istituzionali da tempo invocati ma mai avviati a soluzione. Per stare alle principali, pensiamo alla abolizione del Senato e alla legge elettorale, delle quali scrivo sinteticamente le mie osservazioni.

La ragione di fondo, condivisibile, è quella di dare al Paese una conformazione più moderna, più aderente al momento storico che viviamo, più equa e più rispondente, se si può, al requisito, non banale, che vuole istituzioni coerenti con la democrazia rappresentativa, ossia per un assetto, il nostro, che non è né presidenziale né plebiscitario, ma è del popolo che delega al Parlamento la guida del Paese.

Proprio sul Parlamento la riforma in corso ha scelto di snellirne il funzionamento abolendo la doppia Camera, il cosiddetto bicameralismo paritario, sopprimendo (quasi) il Senato, rendendolo di soli 100 membri (anziché 315 come ora), eletti non più direttamente ma, soprattutto con funzioni diverse, eliminando così la doppia lettura e approvazione di ogni legge, causa di grande lentezza.

Merita qualche osservazione in più il nuovo sistema elettorale, il cosiddetto Italicum. Per molti anni è esistito il sistema chiamato “porcellum”, democraticamente iniquo perché gli elettori votavano su liste compilate dai partiti ma “bloccate”, senza possibilità di esprimere preferenze e che quindi dava il risultato di produrre un Parlamento di nominati, più che di eletti.

Quel sistema, che tutti i partiti esecravano e, a parole, dicevano di voler riformare, è stato annullato  dalla Corte Costituzionale e il governo Renzi ne ha confezionato uno nuovo. Subito c’è da esclamare: almeno non c’è più il Porcellum!

Ma, vediamo un po’ la rispondenza dell’Italicum alla “pietra fondante” della democrazia rappresentativa.

Emergono dei difetti che, in sintesi, appaiono funzionali al rafforzamento dell’Esecutivo, ossia il Governo, a scapito della autorevolezza del Legislativo, ossia il Parlamento. Perché? Per almeno tre ragioni:

  1. Il partito che raggiunge il 40% dei voti ottiene il 55% dei seggi (premio di maggioranza). Lo scopo è assicurare la governabilità ma, se consideriamo che, potendo registrarsi astensionismo per quasi la metà degli aventi diritto al voto, il 40% dei consensi significa il 20% degli elettori, quindi la rappresentanza  e il Governo sono l’espressione di un quinto del popolo; un po’ poco.
  2. Le liste elettorali, non più come il Porcellum, ma prevedono i capilista ancora bloccati e l’espressione della preferenza solo sui candidati che lo seguono. Ne consegue che i parlamentari più sicuri, e forse più numerosi, saranno i capilista, quindi, ancora, quelli “imposti” dai partiti e non scelti dagli elettori.
  3. Le candidature plurime. Cosa vuol dire? Che il nome, poniamo del leader partitico, potrà essere candidato in tutte le liste d’Italia, poi, siccome verrà eletto dappertutto, sceglierà la sua “postazione”, lasciando il posto a chi lo segue. In pratica un capolista “specchietto” acchiappa voti”.

Ben si comprende come quelle regolette del nuovo sistema elettorale destinate a comporre il Parlamento (ormai la sola Camera dei deputati essendo abolito il Senato), fanno sì che gli “eletti” siano ancora in buona parte  dei prescelti dai partiti e quindi “comodi” sostenitori del Governo che quella maggioranza formerà.

Non sfugge un’osservazione. La disaffezione della gente per la politica, che si traduce anche nella rinuncia al voto, l’astensionismo, è radicata nella convinzione che il voto non serva. E la nuova legge elettorale non pare aiuti a fugare quel sentimento, ma incentivi ancora, purtroppo, lo spazio per il populismo.

Visto che ne stiamo parlando si potrebbe auspicare come sia ora che i partiti vengano regolamentati, rispettando, non dimentichiamolo, l’art. 49 della Costituzione che esige per loro un assetto, un metodo interno democratico. Il problema non è mai stato affrontato.

La curiosità, o la contraddizione, sta nel fatto che i partiti politici siano, debbano essere, i promotori della democrazia nelle istituzioni e non siano dotati di un metodo che esiga democrazia al loro interno. La forza delle regole aiuterebbe a mostrare la tanto invocata trasparenza e anche a vincere i grandi pasticci che si creano nei meccanismi di selezione della classe dirigente, in primo luogo delle elezioni primarie.

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