Chi l’ha chiamato, il virus?

di Umberto Cogliati
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coronavirus

Si è scritto tanto, forse troppo, su questa “piaga” chiamata coronavirus. Anch’io scrivo poche righe, tanto per aggiungere confusione a quella che già c’è; certo, insieme a cose sensate. Ma è l’atteggiamento delle persone, allarmate da questa situazione, che scarica sullo scenario, che è serio, il proprio stato d’animo che si divide, almeno, in ottimisti e pessimisti.

Quindi, fondamentalmente, il vivace dibattito in corso, accoglie quei due atteggiamenti, propri del popolo, della massa, molto meno, per fortuna, degli operatori sanitari.

L’ottimismo, come il pessimismo, sono due abiti mentali che ogni persona tende a darsi; non sono  automatismi; si direbbe che non esistono in natura, sono una scelta personale alla quale ognuno di noi tiene, fatta la quale, la vita, i comportamenti, l’esistenza di ognuno sono condizionati. E’,però, questo atteggiamento, non utile per rapportarsi a fenomeni dove è necessaria l’obiettività.

Infatti ottimismo e pessimismo da soli sono incapaci di mischiarsi, di “impastarsi” per dare vita a quel realismo indispensabile quando siamo chiamati a far fronte a vicende importanti che scuotono la nostra quotidianità, e non si produce quella reazione obiettiva necessaria, ma solo una guerra tra pessimisti e ottimisti che non vedrà né vinti né vincitori, ma darà vita, ad essere indulgenti, solo a una grande confusione, primo nemico per la soluzione del problema.

Stiamo parlando del coronavirus sul quale si stanno scaricando le tensioni di una intera comunità i cui appartenenti, a prescindere dall’essere toccati da quel morbo, temono di poterlo essere, sicché ogni persona a suo modo, ottimista o pessimista, spesso non mettendo in conto che quel malanno che, nostro malgrado, ci ha raggiunti, necessita di forti atteggiamenti oggettivi, non inquinati da tentazioni pessimistiche ma nemmeno, sembra paradossale, ottimistiche.

Guai se un solo soggetto operatore della sanità, si lasciasse tentare dall’ottimismo o dal pessimismo nell’affrontare la difficile condizione dell’infezione da guarire!

C’è un detto, sadico, drammaticamente ironico, che si attribuisce a un chirurgo: “L’operazione è andata bene, ma il paziente è morto”.

Entrando nel vivo. Io che scrivo non vorrei sembrare sadico, e invece si è spinti a fare i conti con l’obiettività del caso che è la prima saggezza da mettere in campo.

Il discorso deve tenere conto di tanti fattori, a partire da quelli di segno negativo: taluni non conosciuti, quindi nemico invisibile, altri, come l’inadeguatezza strutturale, medici scarsi, ospedali insufficienti, materiali carenti, già questi sono elementi di fronte ai quali già appare il dramma, e si alzano i tardivi forti lai del pentimento come ad esempio la grave carenza di ospedali al sud del Paese o il numero chiuso nelle facoltà di medicina. Sono pochi macro esempi che calzano alla vista del dramma che stiamo vivendo. Ed è naturale porsi una domanda: in un Paese come l’Italia nel quale la quotidianità delle persone vive immersa in gesti ad altissima tecnologia (pensiamo a internet che abbiamo a colazione, a pranzo, a merenda, a cena e nell’intervallo dei pasti, o ai nuovi traguardi applicati all’automobile), perché la politica non si sogna di accompagnare studi, scelte investimenti, per affrontare i guai della salute delle persone quando si presentano?

Risposta: la politica non c’è. Vero. C’è ma pensa a se stessa, al proprio tornaconto, al consenso elettorale; poi arriva, inaspettato, il coronavirus che raffigura bene l’evangelico ricco Epulone che non vedeva altro che la sua abbondanza, e sappiamo com’è andata.

Finito l’aspetto lamentoso, ma ci voleva, oggi siamo tenuti a rendere un grandissimo grazie a tutti gli operatori sanitari e a quello che fanno con impegno e abnegazione, anche se, ecco il dramma denunciato da operatori in questi giorni: siamo come in guerra: si salvi chi può essere salvato; crudo realismo con la complicità delle carenze di cui sopra.

Questa drammatica condizione non sta né col pessimismo, né con l’ottimismo, è solo macabro realismo.

Un invito, per quel che conta, ma conta, è, per chi se lo può permettere, di stare chiusi in casa.

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