Oggi, si dice, il mondo è globalizzato; semplificando dovrebbe voler dire che ogni grande scelta, o rapporto tra paesi, istituzioni, governi, enti, società, che si crea in un luogo, ha riflessi sul mondo intero, perché questo è, ormai,soggetto unico. Sembra, ma non è così; il mondo è ancora diviso, se non parcellizzato, specie sui grandi temi. Ci sono molte porzioni del mondo che sono autonome, non subalterne e sostanzialmente estranee alla globalizzazione, a meno che questa la si intenda per un fatto di solo mercato. Ma allora la globalizzazione vorrebbe dire un mondo di compravenditori, ma i principi e i valori si sono globalizzati?
Eppure noi europei, figli del Vecchio continente, dovremmo essere in prima fila a valutare le dinamiche e le condizioni del mondo, nulla ignorando; a che scopo? Per dare quegli esempi, attinti alla nostra storia, non per imporre modelli, ma per proporre valori che si ritengono universali, e quindi trasferirli a “pezzi” del pianeta nei quali si è ancora ben lontani dall’offrire all’uomo dignità, diritti, obiettivi civili e quanto sarebbe per questo, speranza.
Per economia di spazio, provo a soffermarmi su un solo esempio/confronto: due grandi Paesi, i più grandi: Cina e India. Il primo retto dall’impronta marxista del comunismo , l’altro, esito di un processo di decolonizzazione che data ormai decenni. Lì ci vivono due miliardi e mezzo di persone; noi europei non potremmo ignorarne l’esistenza, a prescindere da tutto. E’ vero o no che se noi della vecchia Europa guardassimo a questi due esempi vedremmo che la globalizzazione è di là da venire?
Ed è proprio il confronto tra la Cina e l’India che fa nascere interrogativi, anche sul nostro ruolo di Europa e sulla capacità dei nostri valori a dare risposte a questi fenomeni.
La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti, è detta una dittatura, e lo è; lì comanda il Partito comunista, ma si è portati a chiedere: “Lì, lavorano e mangiano tutti?” La risposta verosimile è “sì”. All’India, col suo miliardo circa di persone, che è ritenuta la più grande democrazia del mondo, facciamo la stessa domanda: la risposta, sicura, è “no”. Si obietta: “Ma in Cina manca la libertà”. Vero. Ma in Cina, la dittatura cinese, non ha spazi, perché non occorrono, per Madri Teresa di Calcutta, e lì, in India, invece, che non è una dittatura, ma c’è quella libertà che in Cina si dice negata, c’è anche la libertà di morire di fame o di stenti. Allora ci si chiede, ma pensando a Ghandi e alle sue battaglie per trarre fuori il suo Paese dal dominio inglese, è questo quello che avrebbe voluto? E’ azzardato affermare che l’India ha tradito il suo padre Ghandi?
E da mettere nel conto, anche, a favore di un risultato atteso, ma mancato, dall’India, che, negli anni, essendosi “depurata” dai grandi spazi islamici di Pakistan e Bangladesh, dovrebbe presentarsi al mondo per quella democrazia che nominalmente dice di essere. Invece, cosa abbiamo?
Oggi l’India gareggia col mondo, con ottime posizioni quanto a tecnologie di avanguardia e a frotte di tecnici che forma e sparge in tutto il mondo. Per ottenere questo ci vuole una classe dirigente che imprime al Paese questo passo. Di fronte alla miriade di poveri e diseredati dei quali l’India è “ricca”, verrebbe da dire che quella classe dirigente è “classe” che sta in alto e forse pensa poco o nulla a quella “classe” che sta sotto.
Ma (i paradossi della storia), non era il marxismo l’inventore della classe, operaia, il proletariato, nella sua genesi, poi a sua volta tradita? In India, dove il marxismo non esiste, hanno creato le classi: due: quella dei ricchi e quella degli straccioni. Ma, chiediamoci anche questo: gli indiani della classe ricca, avranno in agenda gli straccioni? O gli va bene così?
Siamo tornati alla globalizzazione, vera o supposta. A guardarlo con un po’ di attenzione, questo mondo, detto globalizzato, mostra ancora di essere l’abito di Arlecchino.
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