Partiti e populismo

di Umberto Cogliati
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Populismo

In Italia, oggi, il quadro politico, meglio, dei partiti, è quanto di più disordinato ci possa essere; questo in relazione a quanto i padri costituenti fissarono nella Carta fondamentale della Repubblica, la quale, all’art. 49, sancisce che “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti politici per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale”.

Quella affermazione, così solenne, è stata gestita dai partiti che conosciamo, in vari modi: con allegria, con varie finzioni, alla bersagliera, o anche peggio; raramente con senno ed equilibrio, in ogni caso rifiutando di darsi quella regola che dice “con metodo democratico”, vale a dire l’impegno a gestire col metodo della democrazia interna degli organismi, i partiti, che, come primo precetto, propugnano la democrazia nelle istituzioni. Si direbbe “Da che pulpito….” E nessun partito ha mai fatto battaglie per ottenere quella regolamentazione.

Ne deriva che, allo stato delle cose, i partiti possono essere ogni cosa: partiti liquidi, che oggi ci sono poi spariscono, partiti che sono partiti come gli altri ma che si dichiarano non partiti, ma movimenti, partiti che si gestiscono online (chi garantisce cosa?). In questo quadro si può quasi comprendere come nella proposta politica corrente sia divenuto difficile individuare quei ceppi ideali , quelli che hanno, non sempre al meglio, ma riconoscibili, dato vita alle collocazioni “leggibili”: la destra, il centro, la sinistra, le cui posizioni erano almeno presidiate da partiti che, per la loro ispirazione ideologica o anche solo per la prassi praticata, non erano confondibili tra di loro.

Oggi, si dice per la sparizione delle ideologie, e aggiungiamoci per la crescita della coscienza dei diritti e delle istanze conseguenti delle classi sociali più deboli, molto reali e in più carburate dal vistoso malcontento per il dilagare del mal esempio della classe politica dirigente, il potere finalizzato a mantenere se stesso, la diffusa corruzione, si sono prodotti movimenti che hanno avuto facilità di richiamo del consenso popolare, con messaggi promettenti e aggressivi, definiti populisti perché alla base antipolitici e con grande facilità a promettere un governo delle istituzioni, pulito e affrancato dall’evidente malcostume.

Chi ha avuto l’abilità di idearli questi movimenti, ha avuto condizioni facili perché, da un lato facendo leva sulla politica che ha tradito il popolo, dall’altro chiamando con l’altoparlante e la piazza il popolo, quello con bisogni e diritti veri negati, ma anche composto da larghe fasce di inappagati o scontenti per millanta cose, e comunque desiderosi di mandare a casa chi comanda per sostituirli con gli onesti.

Un passo indietro. Questo popolo, inteso come massa elettorale, che subito si allea all’amplificatore dell’antipolitica e già che c’è ed è alleato diventa di colpo parte dell’esercito degli onesti, non è che, mentre da un lato denuncia le malefatte del governo, in molta parte di questo stesso popolo, anche di molte fasce in vista, vi sia una sorta di comportamento analogo che imita la classe politica che vuole spodestare?

Chi stabilirà in quanto consiste il popolo dei finti mutuati, degli evasori fiscali, degli invalidi (e loro medici) inventati, degli imboscati nelle aziende pubbliche, dei fannulloni frammisti ai milioni di dipendenti pubblici, dell’immensa schiera di burocrati che campano rendendo difficile la vita ai loro pari, di chi vuole il lavoro ma se ne guarda bene dal cercarlo, da chi la pensione la invoca perché il lavoro non l’ha mai amato, da chi tira tardi negli studi perché il papà lo mantiene, da chi vive abitualmente di sole raccomandazioni, da chi, di regola, unge e porta a casa il permesso, la pratica, la licenza, eccetera, eccetera.

Se questo elencato è un esercito così numeroso e dà fiato ai proclami dei movimenti populisti, quindi sta da quella parte, ipotesi assai probabile, viene d’obbligo una domanda: come può un tale movimento annoverare solo brava gente, i sinceri desiderosi di cambiare, gli onesti (onestà, onestà, onestà), ossia i candidi da contrappuntare a tutto un altro popolo di contaminati dagli altri tradizionali partiti?

Allora la rete gettata dai movimenti populisti è risultata una gigantesca operazione di marketing: bravo chi l’ha ideata, abile chi l’ha seminata nelle piazze. Raccogliere un utile pari a circa un terzo del popolo votante è un bel premio, una bella fetta di potere, una fondata previsione di agguantarlo tutto il potere di governo. Ma se questo quadro di aspettative, fatte, per ora, di numeri, ha questo spazio di ambizione, qualche colpa, grossa, ce l’ha per davvero la classe partitica tradizionale, sia perché si riteneva sicura all’infinito di potere continuare senza regole, non essere ripresa da alcun potere, con la sfacciataggine di farsi finanziare dallo Stato anche dopo un referendum contrario al finanziamento dei partiti, in altre parole con la certezza di spadroneggiare all’infinito a spese del popolo. Praticamente se oggi i partiti tradizionali sono costretti a misurarsi con i movimenti dell’antipolitica, debbono solo recitare il mea culpa, quella di avere abusato e deteriorato la politica, quella vera, della quale nessuno può fare a meno.

E senza la politica, quella seria, che prepara, forma e seleziona la classe dirigente, non lo si governa un Paese. Da noi, in Italia, queste nostalgie datano purtroppo tanti anni addietro. Ora si è messi abbastanza male. La classe e la capacità politica non si improvvisano, né col marketing, né online. Ne abbiamo una prova al primo serio impegno in una città ragguardevole, come Roma, nella quale il populismo è stato creduto dall’elettorato, ma la classe che doveva prendere, finalmente, il timone in mano, dopo facili promesse roboanti e al grido di ‘onestà’ si sta dimostrando quanto meno inadeguata; Dio non voglia con gli stessi brutti difetti imputati agli altri.

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