Lo si è sentito dire in questi giorni: Milano torna ad essere la capitale morale del nostro Paese.
Piano, attenti agli aggettivi, lo diciamo anche a quel signore che si chiama Raffaele Cantone, che ha pronunciato, forse improvvidamente, quella “sentenza”.
Riflettiamo: per ottenerla quella medaglia riassegnata a Milano, “morale”, la si dovrebbe conquistare o, come nel nostro caso, è sufficiente essere “meno immorale” della città concorrente, Roma, per vincere la “gara” di essere la capitale della virtù? Ci pare che un simile schema sia da rifiutare. Poi, coi tempi che corrono, il trofeo della moralità non è di facile assegnazione. Ma poi, su cosa si fonda questa conquista?
Una città non è l’Amministrazione comunale, non sono solo le imprese, o le banche, o le vetrina della moda, o le associazioni, ma nemmeno i servizi, i trasporti, il divertimento, la produzione della cultura, la Scala. Quindi, non è facendo l’”esame del sangue” a ognuna, o a tutte queste categorie le quali, prendendo un buon voto, generano la capitale morale.
C’è, ci sarebbe, ci dovrebbe essere, dell’altro.
In primo luogo la città in questione deve percepirsi come una comunità, con un segnale e una lettura forti che superano ogni altra valutazione. Cosa vuol dire? Che lo spirito di chi la abita, la vive, vi lavora, vi studia, vi progetta, deve sentirsi al servizio di chi c’è all’intorno, deve interrogarsi se gli obiettivi che persegue col rispettivo impegno sono utili e graditi alla comunità; in parole più semplici, non si ha una capitale morale data solo dall’equilibrio dei poteri che è tale perché deriva da una somma di regole e di controlli che lo mantiene in quella condizione. E si comprende come, in un simile scenario, la trasgressione alle regole chiamata corruzione, se non ci fosse sarebbe un bene, ma non produce così moralità. Se pensiamo altresì ai grandi investimenti immobiliari o del terziario, magari poi venduti a sconosciuti stranieri, non sono, di per sé, immoralità, ma sia l’uno che l’altro fenomeno non depongono per fertilizzare una comunità, che vuole essere capitale morale. Siamo lontani. In altre parole ancora: è possibile, e giustificabile, candidarsi a capitale morale quando non c’è regola che assicuri che le opere del nostro ingegno restino nostre? E l’ingegno, lo si sa, crea su se stesso strumenti per crescere e migliorare sempre e invece delle più importanti di queste pagheremo l’affitto agli arabi?
No. Per essere capitale morale Milano deve avere in sé la consapevolezza che si deve superare lo schema: i ricchi di qua, i poveri di là.
Quando venne coniato il detto “Milan, col cör in man” erano i tempi sì di ricchi e poveri, ma erano tempi di welfare di avanguardia, dei grossi lasciti per costruire gli ospedali, delle banche filantrope, di una Chiesa in trincea a sostenere quelle iniziative.
Di tutto questo non c’è più segno a Milano. Si potrà dire, nella “gara” per essere la capitale morale, che a Roma si è rubato di più, ma anche Milano la sua parte l’ha fatta, e che parte, negli ultimi venti anni, col rosario di tangentopoli ma con una coda spintasi fino alla soglia del tanto osannato Expo. Allora, come la mettiamo?
E chi non avrebbe piacere ad abitare nella “capitale morale” d’Italia? Ma, perché sia, “Milan l’ha de cambià la pell cumè i bess”.
Il testo per discutere se Milano è la capitale morale mi sembra un po’ sbrigativo; altri e numerosi sono gli aspetti da considerare che l’autore tralascia.Ad esempio le tante organizzazioni noprofit che sappiamo essere numerose a Milano,ma non vorrei rubare troppo spazio ed eventualmente riordinerò i miei pensieri e scriverò un altro contributo più organico.